Sostenibilità: una parola sciamanica
La parola "sostenibilità”, vista quasi come un neologismo, nata per indicare il dovere/diritto di una comunità a preservare le condizioni necessarie per generare processi di vita.
Ormai siamo convinti che sia sufficiente pronunciare questa parola per riuscire ad attivare chissà quali capacità sciamaniche, in grado di ripararci dalle pietre delle incertezze che ci sentiamo rotolare addosso. Ritenendola simile a quelle cariatidi o a quei telamoni costretti in eterno a sorreggere i cornicioni dei templi o dei palazzi, alla sostenibilità abbiamo demandato il compito di proteggerci dalla paura di un futuro che ha smesso di apparirci radioso rivelandosi, al contrario, ricco di timori e di prospettive incerte se non addirittura così minaccioso che diventa inutile, per non dire impossibile, contrastare.
Emigrato nella lingua anglosassone, sustainable, si è trasformato in sostantivo, riuscendo a caratterizzare e a dare un nome a una rappresentazione di idee e di pratiche, sustainability, e, finalmente, compiendo il percorso a ritroso ritornare, in tempi recentissimi, nell’alveo della nostra lingua. Per questo motivo oggi, dopo questo lungo rimpallo lessicale, l’espressione “sostenibilità” può essere considerato, a giusto titolo, un anglismo.
Alla sostenibilità è stato richiesto di assolvere un arduo compito. Affondando le proprie radici semantiche nel primigenio significato di “sorreggere”, di essere cioè in grado di sopportare sia cambiamenti di stato emotivo che di status economico, deve ricordarci attraverso l’evocazione di un generico e a volte sottinteso – ma non per questo meno imperativo – “principio di responsabilità”, quanto sia importante mantenere il “senso del limite”. Quel senso del limite che, complici le incredibili scoperte scientifiche nell’ultimo secolo, non crediamo possa più fare parte del glossario della nostra vita quotidiana a differenza delle generazioni che ci hanno preceduto.
Nonostante queste premesse cosi drammatiche la “sostenibilità”, però, dovrà aspettare alcuni anni prima di entrare nel lessico globale, riuscendovi il giorno in cui la comunità internazionale, dopo essersi interrogata sulla necessità di imporre nuove relazioni normative tra il mondo naturale e gli esseri umani, indica come “sostenibile” l’esempio di «uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni» (Rapporto Brundtland 1987).
Il correlare l’ineluttabile svolgimento del divenire delle attività umane a un “principio di responsabilità” che tenga conto delle possibilità di vita delle generazioni future, altro non è che l’applicazione di quel “principio di prudenza” espresso anni prima, nel 1979, da Hans Jonas. Il filosofo tedesco suggerisce di operare «in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla terra» e propone un’etica fondata sull’autolimitazione dei poteri trasformativi dell’uomo, portatori di esiti distruttivi nei confronti della natura.
L’avere imputato all’essere umano il dovere di assumersi il principio di responsabilità nei confronti della natura può essere definito, senza paura di essere accusati di sovradimensionamenti lessicali, una svolta epocale. Appare emblematico il fatto che in concomitanza con l’apertura della conferenza sul clima di Copenaghen (7 dicembre 2009), un canale televisivo privato (Sky, canale 620) ha mandato in onda la prima puntata di un programma dal titolo “La Terra dopo l’uomo”. Data per scontata la scomparsa del genere umano non rimane che interrogarsi, a questo punto per pura curiosità, su quello che succederà dopo la catastrofe e su quali possono essere gli effetti per il pianeta. Inutile aggiungere che le immagini sono estremamente realistiche e di grande impatto emotivo.
Pubblichiamo un articolo scritto su Che Fare, preso da Manifesto per la sostenibilità culturale (FrancoAngeli) di Monica Amari